L’amico Luca Mercalli, su questo giornale in data 19 marzo, commenta la crisi idrica che pervade la penisola, ma in particolare il nord suggerendo: “Per una soluzione a lungo termine serve una pianificazione nazionale e decenni di lavoro: invasi, cisterne, canali e riparazione perdite acquedotti”. Trovo l’affermazione ovviamente condivisibile quando parla di riparazione di acquedotti e realizzazione di cisterne. Non so cosa intenda con “canali” perché i canali vengono realizzati sulle aste fluviali, che già sono in sofferenza e non si vede come si potrebbe sottrarre a esse altra acqua senza intaccare il deflusso minimo vitale, che spesso già non è rispettato. Mi vedo in disaccordo circa il discorso degli invasi, che non sarebbero comunque la bacchetta magica richiedendo anni di lavori e di consumo di suolo.
Ma soprattutto mi trovo in disaccordo laddove Luca si dimentica che prima o poi la crisi idrica la si dovrà affrontare modificando i nostri stili di vita. Dove finisce l’acqua? Noi cittadini pensiamo solo ed esclusivamente a quella che esce dai rubinetti o dal water, ma… Secondo stime dell’Anbi (Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue) in Italia all’agricoltura sono imputabili 14,5 miliardi di mc di acqua l’anno pari al 54% dei consumi totali.
E buona parte di questo consumo non va per alimentare noi umani direttamente, bensì per alimentare animali che poi vengono macellati per soddisfare nostre presunte o reali esigenze alimentari. Secondo Slow Food – che riporta i dati dell’Osservatorio permanente sul consumo di carne – ogni italiano mangia 79 chilogrammi di carne all’anno che, divisi per 365 giorni, fanno 216 grammi pro-capite al giorno. In tal modo contribuendo, tra l’altro, indirettamente alla produzione di gas climalteranti visto che secondo la Fao il settore zootecnico contribuisce per il 14,5% alle emissioni totali di gas serra. Ma torniamo alla risorsa acqua, che giova ricordarlo non è infinita.
La zootecnia consuma 317,5 milioni di metri cubi di acqua solo per dare da bere agli animali e lavare le strutture e attrezzature necessarie alla produzione. A questa cifra si somma quella per coltivare il foraggio (mais, soia, etc.). Per produrre un chilo di carne bovina in modo intensivo servono in media circa 15.400 litri d’acqua, 10.400 nel caso della carne di pecora, 6000 nel caso del maiale e 4.300 per la carne di pollo.
Secondo uno studio commissionato dall’Unesco, per produrre un chilo di pomodori sono invece necessari 200 litri, un chilo di lattuga equivale a 237 litri, per un chilo di patate sono necessari 287 litri, per un chilo di fagioli di soia 1800 litri, un chilo di pane in media prevede l’utilizzo di 1608 litri, un chilo di pasta 1849 litri, per un chilo di tofu servono 2030 litri e un chilo di riso ne consuma 2497.
Appare evidente che un governo avveduto dovrebbe in primis intervenire in questa direzione disincentivando la produzione e il consumo di carne. Ottenendo così più risultati: risparmio nei consumi di acqua, maggior benessere della popolazione (lo afferma l’Iarc) diminuzione di gas climalteranti.
Ma pensate che lo faranno? Basti pensare che il settore delle carni vale trenta miliardi di euro all’anno, un sesto dell’intero settore alimentare. Ovviamente no, ma prima o poi tutti i nodi verranno al pettine come ammonisce la saggezza popolare. Intanto noi possiamo non mangiare carne per le ragioni di cui sopra e, ça va sans dire, per un discorso etico.
L'articolo Clima, al piano di Mercalli contro la siccità aggiungo il nodo allevamenti: riduciamo la carne proviene da Il Fatto Quotidiano.